4° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Parola del Signore.

MEDITAZIONE

“In quel tempo, vedendo le folle, Gesù sali sulla montagna…”; inizia così, il brano del Vangelo di questa quarta domenica del Tempo Ordinario, un testo fondamentale, perché contiene il programma della sequela di Cristo, quella che, conducendoci alla salvezza, ci darà anche la beatitudine eterna.
Lo scrittore Luigi Santucci, nel suo libro intitolato “Una vita di Cristo”, commentando questa pagina di Vangelo, così scrive:”…un giorno, la Sua voce ha riempito di gente una montagna.
E’ la montagna di Tabha, appena una gobba, davanti al mare di Tiberiade. Ma quel giorno, ( un giorno ventoso e imprevedibile) quella montagna si fa alta….”.
Alta, possiamo, giustamente, aggiungere, seguendo il pensiero dei migliori esegeti, alta della presenza e della parola di Cristo, Maestro di santità e di vita, col suo discorso sulle ” beatitudini”.
Questo stesso discorso, lo ritroviamo nel racconto di Luca, che lo colloca, al contrario, in un “ripiano”.  (Lc.6,12-29 ss.). Che Matteo ci parli di un’altura, non è un particolare trascurabile, ma ha un ben preciso significato, infatti, il monte, ha per lui un valore simbolico, che accompagnerà tutto il racconto evangelico: dal monte delle beatitudini, al Tabor, al Calvario e, infine, al Monte dell’Ascensione, perché, esso è il luogo della rivelazione, di Dio, il nuovo Sion, così, come Cristo, è il nuovo Mosè.
Nel passo del Vangelo che oggi leggiamo, dall’ altura di Tabha, Gesù, parla alle folle e ai discepoli, proprio, con l’autorità, che viene dalla sua divinità.

“Beati i poveri….
Beati gli afflitti…
Beati i miti….
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia..
Beati i misericordiosi….
Beati i puri di cuore…
Beati gli operatori di pace…
Beati i perseguitati…
Beati voi quando vi insulteranno….
Vi perseguiteranno
Mentendo, diranno ogni male di voi….”

Beati; ma non perché poveri, afflitti, oppressi, calunniati o perseguitati, ma beati, per la presenza di Dio, nel Figlio Gesù, presenza, che è condivisione piena della condizione umana; condivisione che Paolo, così descrive, là, dove dice, che Cristo, pur essendo per natura di Dio, spogliò se stesso e si fece simile ad ogni altro uomo, anzi umiliò se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil.2,6-11), servo paziente ed obbediente, e, sappiamo bene, che questa obbedienza lo condusse alla morte, per la nostra salvezza.
La proclamazione delle “beatitudini” è, dunque, come la “Costituzione fondamentale” del vivere cristiano; e, in esse possiamo rileggere, come in una splendida sintesi, tutta l’esistenza terrena del Cristo, povero, e non soltanto perché nato da povera gente, ma povero, perché ha assunto su di sé la radicale povertà della creatura umana, con i suoi limiti e le sue fragilità, tutte, tranne il peccato.
Dai primi anni dell’infanzia sino agli ultimi giorni, conosciamo Gesù perseguitato, insultato, condannato, con un processo ingiusto, fondato su menzogne, e, infine, ucciso.
Nei giorni della Passione, lo abbiamo visto piangere sangue, nell’Orto del Getzemani, ed entrare in una profonda angoscia; parlando di Lui, Isaia, molti secoli prima, lo aveva definito “L’Uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is.53,3)
Il discorso di Cristo, alle folle e ai discepoli, non è un’ esalazione delle situazioni penalizzanti della vita, ma è l’invito a seguirlo sempre, a credere, nonostante tutto, in Lui, il Figlio di Dio Redentore, perché, in qualunque momento della vita, anche il più buio e angosciante, veramente, Lui è presente e solidale con l’uomo.

E’ quel che il Salmista già, in un tempo lontano insegnava, affermando che:

“Il Signore è fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati;
Egli libera i prigionieri.
………………………….
Il Signore rialza chi è caduto
il Signore ama i giusti,
Il Signore protegge lo straniero.
Egli sostiene l’orfano e la vedova” (sl.145)

Beati, dunque, ma per la rassomiglianza al Cristo, per la fede in Lui e per aver creduto all’amore del Padre; il quale, come Paolo scrive: “ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, ed ha scelto ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio.”
Certamente, nessuno può trovare felicità immediata, nel dolore, o nell’ ingiustizia subita, nelle persecuzioni, nelle guerre, e in ogni altra situazione dolorosa, e che rende amara l’esistenza; ma, se Dio è con noi, se la sua Presenza illumina la vita, tutto cambia.
Se, assieme a noi, cammina Cristo, anche il dolore, acquista luce e senso diversi, non perché si diventi acquiescenti al male, ma perché, la grazia del Risorto, e lo Spirito, che Egli dona, ci rendono capaci, non solo di perseverare con Lui, e di riamarlo sino alla fine, ma anche, di illuminare gli altri uomini, consolarli con la consolazione che viene da Lui, e adoperarci per risanare e migliorare la qualità della vita dei più sfortunati, e di quanti, l’egoismo e l’arroganza di pochi, ha confinato ai margini dell’esistenza.
Quel discorso pronunciato dall’altura di Tabha, in un tempo, cronologicamente lontano, risuona ancora oggi, e, ancora oggi, unico fra tutti i discorsi, ha il potere, come Luigi Santucci scrive:
“…di rovesciare gli uomini, dallo smarrimento alla gioia.” (da “Una vita di Gesù”)

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